mercoledì 5 novembre 2008

“Simultaneous care” per la qualità della vita del paziente Intervista con la prof.ssa Vittorina Zagonel

E’ finito il tempo in cui la terapia del dolore si praticava alla fine della vita, al cosiddetto "malato terminale". Oggi fa parte a pieno titolo di tutte le terapie che si somministrano al malato di cancro, in fase avanzata e anche prima, quando ha grandi chance di guarigione. E non è da sola. Sta con le altre cure di supporto: l’antiemetico, il farmaco contro la fatigue, ma anche la seduta dallo psicologo, e quella riabilitativa fisica.
Sono cure che possono intersecarsi, interagire tra loro e con chemioterapie, radioterapie ed altre terapie farmacologiche negli stessi momenti, secondo il modello della simultaneous care. Un modello che ha caratterizzato il dibattito sulla qualità della vita dei pazienti nella seconda giornata del congresso Aiom, nel corso della Sessione Istituzionale 3 intitolata "Simultaneous care in oncology AIOM-ESMO". Due i momenti chiave: la presentazione delle esperienze italiane e il punto sulle cose da fare.

I centri certificati Esmo in Italia
In Italia ancora molti pazienti ricevono cure di fine vita inappropriate. Si muore in ospedale nell’85 per cento dei casi, si fa ancora chemioterapia negli ultimi 30 giorni di vita.
E invece l’oppiaceo si prende quando è tardi. Insieme probabilmente a qualche altro, i sette centri certificati dall’Esmo, la società europea degli oncologi clinici, fanno qualcosa di diverso. A Roma (Ospedale Fatebenefratelli e Idi), Bergamo (Ospedali Riuniti), Parma, Venezia, Vicenza e L’Aquila si utilizza un approccio multidisciplinare alla malattia oncologica, l’ambulatorio del dolore non lontano dal reparto o dall’ambulatorio dove si pratica la chemio in day hospital.

I centri certificati dall’Esmo, e in particolare dal gruppo di lavoro guidato da Raphael Catane, devono rispettare tredici criteri che riassumiamo di seguito:

  • offrono terapie oncologiche integrate;
  • offrono continuità di cure con équipe che prendono in carico il paziente oncologico dall’inizio, quando la malattia è anche nella prima fase di trattamento e non è avanzata;
  • offrono home care di livello elevato;
  • offrono supporto alla famiglia del malato;
  • si fanno carico sia dei sintomi clinici che di quelli psicofisici;
  • contano medici esperti nel valutare la gravità del dolore;
  • offrono supporto psicologico;
  • affrontano situazioni di emergenza clinica e psicologica;
  • hanno i mezzi per stabilizzare le situazioni del degente;
  • supportano i soggetti affetti da fatigue e i loro familiari;
  • forniscono adeguate cure di fine vita;
  • partecipano a sperimentazioni sulla qualità della vita del malato oncologico;
  • fanno formazione in nome dell’integrazione di diverse figure specialistiche e professionali.
Zagonel: “Oggi l’obiettivo terapeutico è la qualità di vita del malato”
La “frontiera” di questo viaggio viene tratteggiata da Vittorina Zagonel, direttore del Dipartimento e dell’Unità operativa di oncologia dell’Ospedale Fatebenefratelli dell’Isola Tiberina di Roma e membro del gruppo di lavoro su Umanizzazione ed Organizzazione della Società Europea di Oncologia. Che accenna a tre necessità chiave per il futuro: identificare, meglio se nell’oncologo medico, il regista delle cure del malato di cancro da supportare; migliorare l’offerta riabilitativa e rendere più morbido il passaggio dalla terapia oncologica alle cure palliative.

D. Professoressa Zagonel, prima i farmaci oppiacei forti si somministravano a fine vita e c’era un passaggio netto. Come mai si è imposto un modello di simultaneous care? Merito della fine dei pregiudizi su questi farmaci?
R.
Il modello di simultaneous care consiste nell’integrazione precoce delle cure palliative nel percorso del malato. Nelle linee guida dell’Oms, che distinguevano le due terapie associandole a periodi diversi della malattia, l’obiettivo terapeutico era la guarigione del malato oncologico; oggi è la qualità di vita, aspetto che si riferisce a tutto il percorso del malato. Qualità di vita vuol dire anche controllo dei sintomi e non solo del dolore da cancro. Una volta si diceva: facciamo la terapia anche se fa stare male, purché si guarisca; oggi si dice: cerchiamo di far stare il meglio possibile il malato, anche perché le terapie antitumorali sono più efficaci, e abbiamo una serie di altri presidi che permettono condizioni di vita migliori.

D. Una volta il palliativista era spesso un anestesista rianimatore; oggi sembra che il bandolo del percorso diagnostico terapeutico sia in mano all’oncologo.
R.
Ritengo che l’oncologo medico non possa sapere solo della cura del cancro, ma debba prendersi in carico il malato. Anche la terapia del dolore va gestita da chi ha in cura il malato allo scopo di migliorare la qualità di vita. E non solo quella. Parlo anche di fatigue, come dell’aspetto nutrizionale del controllo del vomito.

D. Il libro bianco della Favo punta il dito sui centri di riabilitazione. Quelli italiani non sembrano attrezzati a eseguire le cure di supporto.
R.
La riabilitazione è il punto più carente dell’oncologia, e non solo italiana. L’American society of clinical oncology (Asco) ha pubblicato un editoriale sul Journal of Clinical Oncology mesi fa, sulla risposta ai bisogni riabilitativi. In Italia, prima del piano oncologico del 2006, la riabilitazione per i malati oncologici non esisteva. Invece è un punto fondamentale, perché consente il recupero delle funzioni che permettono al malato una qualità di vita più simile a quella che aveva prima della diagnosi. La riabilitazione non è solo fisica, ma anche sociale e psicologica, nonché tesa al recupero del ruolo lavorativo e familiare precedente alla diagnosi e comprensiva di tutti gli aspetti soggettivi.

D. I centri di cure palliative certificati dall’Esmo non rispecchiano esattamente l’identikit dell’hospice...
R.
Infatti non sono centri per le cure di fine vita, ma ospitano l’inserimento precoce del malato in un percorso di cura nel quale si trasla, se vogliamo, la filosofia dell’hospice. Si parte da una fase precoce, anche per anticipare i bisogni del malato. Oggi noi sappiamo quel che succede al malato; abbiamo esperienza clinica e possiamo intervenire prima che il bisogno venga espresso.

D. C’è bisogno di questo percorso di cura anche quando il tumore è iniziale, e può essere trattato come una problematica meno complessa?
R.
Se noi consideriamo la riabilitazione come un problema che riguarda l’intera persona, nessun aspetto, nemmeno un carcinoma in situ alla mammella, è banale. Bisogna porre l’attenzione non sulla qualità del cancro ma sul malato, su quello che una diagnosi di cancro sia essa precoce o tardiva scatena sul paziente.

D. Professoressa Zagonel, finora era il medico di famiglia a rivendicare una gestione “olistica” e da alcune relazioni emerge non a caso una tensione tra oncologi e medici di famiglia nella presa in carico dei soggetti con malattia avanzata.
R.
Il medico di famiglia non è un problema in sé. Tuttavia il percorso di cura oncologico è complesso e frammentato. Spesso il malato perde ogni punto di riferimento, e il peggio accade quando le diverse competenze intorno al malato creano pareri discordi; il problema non è il medico di base, ma ci dev’essere un punto di riferimento del malato di cancro, che può indirizzare il paziente secondo i suoi bisogni. E questo è l’oncologo.

D. Questo congresso ha presentato novità di rilievo sulla terapia del dolore?
R.
Sì, sui trattamenti tardivi. In particolare, la sessione di Giovanni Apolone dell’istituto Mario Negri ha ospitato un survey nazionale sulla gestione del dolore in 50 oncologie e 50 reparti di cure palliative. Sono dati molto interessanti, alla fine si evince che i reparti di cure palliative non curano meglio delle oncologie. Intanto, come Aiom stiamo cercando di inserire grafiche di valutazione del dolore dei pazienti, formando gli infermieri all’applicazione della scala del dolore e al reporting dell’efficacia della terapia medica nel singolo paziente.

D. L’Italia è lunga anche nel trattamento del dolore da cancro?
R.
Più che altro le eccellenze sono dislocate a macchia di leopardo. Dal punto di vista del paziente, ci sono problematiche culturali non solo per motivi di “latitudine” quanto perché la percezione della malattia è diversa a seconda del luogo di residenza (città, paese o campagna) e del ruolo lavorativo e dell’istruzione del paziente. Insomma il dolore non è solo un problema fisico, ci sono componenti psicologiche e di altro tipo non indifferenti, sulle quali occorre dare un supporto adeguato ai malati.

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