I dati sono stati annunciati a una tavola rotonda tra operatori di hospice (Andrea Martoni e Danila Valenti di Bologna, Fabrizio Artioli di Carpi, Carlo Peruselli di Biella, l’infermiera Chiara Taboga di Roma) moderata dagli oncologi ospedalieri Gian Luigi Cetto e Giovanni Zaninetta. Tutti concordano sulla necessità di affrontare il problema della prognosi prima che le condizioni del malato si aggravino, affinché possa affrontare gli imprevisti della malattia: ma in che modo? Dall’incontro tra esponenti di Aiom e Società Italiana d i Cure Palliative sono emersi cinque punti nodali.
1) Qual è il confine tra cura e palliazione?
Proprio mentre si parla di offrire la terapia del dolore in ambulatorio al bisogno, cioè anche di fronte a chance di remissione della malattia oncologica, si registra nella percezione dei malati e dei familiari l’idea di un confine netto tra il tempo della lotta alla malattia affrontata con chemio ed altre cure, e quello della lotta al dolore, che coincide con la consapevolezza di dover morire. Non in tutti i casi il momento per far partire le cure palliative si può spostare all’indietro. Resiste in alcuni malati un pregiudizio verso gli oppioidi: la percentuale dei contrari alla terapia, una volta proposta, varia dal 10 al 50 per cento - a seconda delle situazioni considerate negli studi, prevalentemente Usa - e delle prospettive personali.
A ciò si aggiunga che negli ultimi dieci anni i giorni di permanenza negli hospice sono diminuiti di un terzo, passando da 30 a 20. Negli Usa un malato su dieci soggiorna in hospice solo nelle 24 ore precedenti la morte. La permanenza in hospice è diminuita in concomitanza con una tendenza a protrarsi nel tempo delle cure attive.
2) Fino a quando protrarre la chemioterapia?
Bisognerebbe dunque fermare in tempo una terapia adiuvante, quando non serve più. Ma quest’ultimo non è un dato standard per tutti i malati, esistono buoni “responders” anche dopo tre-quattro fallimenti terapeutici. E suggerire una terapia di terza o quarta linea costa di meno al medico che dire di fermarsi.
A volte è uno scontro di autorità: quella del luminare che conosce le chance di successo dei nuovi farmaci e quella del palliativista che vive la “terminalità” del suo paziente, ne può predire gli sviluppi.
Altre volte la risposta al quesito è soggettiva, esistono malati consapevoli che accettano protocolli di cura complessi per guadagnare altri tre mesi di sopravvivenza ed altri che chiedono solo di arrivare alla morte senza dolore.
Un dato però è certo: "dalla Corea al Canada 30 malati su cento nell’ultimo mese di vita ricevono la chemio e di certo c’entra in qualche modo una scarsa consapevolezza sul proprio stato di salute", spiega Andrea Martoni, che ha condotto studi d’area in Emilia Romagna sull’informazione al malato.
Il confine, dicevamo, si è spostato. Ma non adesso; è accaduto a metà anni Novanta. Inizialmente l’Oms aveva finalizzato la terapia del dolore ai malati nei quali la terapia non risponde più. Nel 1995 ha ammesso che le cure palliative sono applicabili precocemente, in contemporanea alle terapie per prolungare la vita del malato, allo scopo di alleviare le sofferenze. E’ il concetto alla base della simultaneous care: l’obiettivo terapeutico non è la guarigione ma una miglior qualità di vita, sotto ogni profilo. Occorre unificare le cure di supporto (anche contro la fatigue o il vomito) e prevedere un’èquipe che prenda in carico il paziente, con una guida, preferibilmente un oncologo.
A voler stringere, però, una parte delle cure palliative coincide con le cure di fine vita; il ricorso alla morfina nel malato oncologico si impone nei giorni in cui ogni speranza è persa. Ora, secondo uno standard adottato in Gran Bretagna (cosiddetta "domanda sorprendente") un periodo “buono” per proporre la cura è quando il medico non si sorprende di fronte alla prospettiva della morte imminente del suo paziente. Una partenza fissata – dallo specialista - in quel momento ha buone probabilità statistiche di essere condivisa con i familiari.
4) Qual è il ruolo dell’infermiere nel periodo in cui conta solo la qualità della vita e non più la guarigione?
Intanto bisogna definire gli indicatori di qualità della vita. Chiara Taboga fa riferimento a un’indagine condotta con l’università di Tor Vergata nella quale il malato indica tre cardini:
- mantenere il contatto con il proprio ambiente (casa, famiglia, amici);
- diritto/possibilità di scegliere/rifiutare le cure alle quali si è sottoposti;
- possibilità di mantenere la dignità di fronte allo sconvolgimento del proprio schema corporeo.
L’infermiere deve lavorare sui punti di forza del malato; accanto alla gestione di sintomi ed assistenza, deve saper orientare paziente e famiglia nel servizio sanitario. E deve dare il suo contributo nell’èquipe affinché questa acquisti autorevolezza nel difendere le cure palliative da tentativi di proseguire terapie quand’è troppo tardi.
Non solo nei malati italiani non c’è una consapevolezza sulla prognosi. Studi su pazienti di Hospice riferiti da Danila Valenti indicano che i malati non conoscono elementi chiave della diagnosi (40 per cento) e, almeno negli undici hospice censiti dallo studio Isdo, solo una minoranza sarebbe consapevole di essere trattata con farmaci oppiacei.
Ora, se è vero che non si sbatte in faccia una prognosi, è anche vero che troppo spesso negli ultimi giorni di vita si continuano ad eseguire esami strumentali (5,8 prestazioni negli ultimi 15 giorni) inutili, anzi rischiosi (colonscopia, broncoscopia) per un paziente defecato. Dunque, bisogna informare correttamente e se possibile prima.
Secondo alcune scuole di pensiero, l’incombenza di dire la verità spetterebbe a figure diverse dagli oncologi (Journal of Clinical Oncology). Anche nelle strutture italiane si fa strada la figura dello psicologo e dello psico-oncologo che valutano tutti i lati della malattia e del dolore e si misurano con il disagio del malato. Sarebbero loro i prescelti?
Dall’altra parte c’è la necessità di far seguire il aziente da un’équipe che non cambia nel tempo, perché si inneschi un rapporto di fiducia. Potrebbe essere lo stesso paziente a indicare con i suoi comportamenti chi di volta in volta nell’équipe può “rivelare” una verità, in genere non accettata all’inizio al punto da essere rimossa, ma che forse in prospettiva rappresenta la miglior difesa da proposte di terapia sproporzionate rispetto all’attesa di vita.
Nessun commento:
Posta un commento